venerdì 18 luglio 2008

PILLOLE DI MEMORIA [2]

Ricordare non fa mai male.
Anzi, è stata la grande forza dell'umanità, la grande eredità che ci siamo tramandati di generazione in generazione: la memoria degli eventi.
Nomi e cognomi.
Così, nel mio piccolo, provo a tracciare anche il mio solco di memoria.
Oggi parlo di politica e di economia. Parlo di un luogo che non ho frequentato perchè non ho voluto, non perchè non ho potuto. Ma allora come oggi, gli atenei erano ricercati per poter avere una base culturale da cui partire ed un attestato di frequenza che dichiarasse che ci si era andati davvero. Perchè da sempre (da trent'anni per quel che mi riguarda) l'università La Sapienza a Roma è stata scarsina di dotazioni di laboratorio.
Perchè l'universitario italiano della mia generazione non ha una precisa coscienza del valore della ricerca e della sperimentazione di laboratorio.
Non ha mai visto un laboratorio!
E lo dico con una certa cognizione: mio padre era un docente, ricercatore e luminare.
Le mie prime corse in bicicletta, con le rotelline di dietro, le ho fatte nei viali dell'università.

Anche mio padre si lamentava del fatto che i fondi fossero sempre pochi, mal distribuiti e mal spesi.
Anche a quei tempi la ricchezza di alcuni docenti non era nella memoria e nella gloria che i posteri avrebbero potuto attribuire al suo nome, ma nella vastità dei saloni delle loro case al centro storico, addobbati possibilmente di opere d'arte di estimabile valore.
Corruzione ed idiozia vann di pari passo, questa è la memoria che gli avi ci hanno lasciato.
Ma a scuola pochi studiano e molti lo fanno svogliatamente, quindi non imparano e quindi perpetrano e perpetuano movimenti che sono già stati compiuti.

Dal momento che chi ha il potere oggi, lo ha conquistato grazie all'ignoranza che dilaga e regna sul territorio, quelle stesse persone sanno bene che valore abbia la scarsità di istruzione superiore.
Forse è questa la visione prospettica che i ministri dell'attuale governo hanno ben chiara: il popolo deve rimanere popolo, che al resto ci penseranno i figli del potere.

Così, l'ultimo accessorio tecnologico posato sul mio tavolo Ikea mi ricorda che le cose inutili hanno sempre il sopravvento sulle cose necessarie. Ma forse mi sbaglio.
Aspetto fiducioso. Non sono credente e non dò speranze di sopravvivenza all'umanità, ma aspetto che qualcosa di troppo esilarante accada, qualcosa da non poter fare a meno di riprendere con un cellulare per inviarlo su YouTube ad un mondo morente che non capirà cosa sta guardando.
Senza ricerca scientifica viene meno lo sviluppo di un paese e si aggrava la crisi economica», ha di recente affermato il premio Nobel Mario Capecchi.
Ma il ministro Tremonti “mani di forbice” non ci sta e ha confezionato un decreto legge che massacrerà ricerca e università pubbliche, con tagli pesanti e indiscriminati. Per tappare il buco di denaro creato dalla populistica abolizione dell’Ici e dal salvataggio dell’Alitalia, Tremonti saccheggia le tasche già mezze vuote delle Università.
Tagli drastici ai fondi per il funzionamento e per la ricerca, forte limitazione delle assunzioni, riduzione degli scatti stipendiali e privatizzazioni insensate: si tratta di misure che causeranno la paralisi, azzerando le possibilità di crescita e rinnovamento degli atenei e le speranze di carriera di giovani e meno giovani. Anche grazie all’incremento delle ore dedicate dai docenti alla didattica, l’università si trasformerà in uno pseudo-liceo, contenitore di didattica, povera e minimale, esamificio da cui la ricerca scientifica sarà espulsa, come un corpo estraneo.
Le scellerate misure di Tremonti costringeranno, inoltre, gli atenei a triplicare le tasse d’iscrizione per rastrellare fondi necessari alla sopravvivenza. Il buon senso avrebbe suggerito di tagliare le sacche d’improduttività grazie ad una seria valutazione, ma Tremonti non colpisce fannulloni e nepotisti, non pota rami secchi, preferisce penalizzare la parte migliore degli Atenei, quella che lavora, produce e studia. Al tempo stesso, elargisce finanziamenti ad personam ai centri “d’eccellenza” privati da lui stesso istituiti.
Si tratta di una reale emergenza, il più violento e rozzo attacco mai sferrato contro la cultura, l’università e la ricerca pubblica nel nostro paese dal dopoguerra in poi. Un attacco che ha generato un malcontento dilagante: da Torino a Cagliari, da Firenze a Napoli, da Bologna all’Aquila, da Milano a Roma, da Venezia a Palermo, docenti, personale tecnico-amministrativo e precari organizzano assemblee e minacciano di bloccare l’apertura del prossimo anno accademico. Si penalizzeranno gli studenti?
Saranno penalizzati comunque dall’aumento delle tasse universitarie e da servizi sempre più scadenti.
Si preannuncia un autunno davvero bollente, Tremonti ci pensi bene.

Patrizio Dimitri

Docente di Genetica all'Università La Sapienza - Roma
EPOLIS - 17 luglio 2008
A ben pensarci, il nostro Napoleone nazionale, guida le sue truppe con una strategia incredibilmente palese eppure così sfuggente. Ora crea i presupposti per una grande disoccupazione, sopratutto di personale specializzato. Poi, alle prossime elezioni, prometterà milioni di posti di lavoro.
Un genio!
Aspettiamo a vedere, due saranno le soluzioni. Solo due: o l'alloro o gli schiaffi.
Nessun duce porta mai del bene al proprio popolo. MAI!
Spero che la memoria storica prenda il sopravvento alle fiction, nei prossimi anni. Spero che essere costretti tutti a pagare il canone dovendo mostrare l'impronta del proprio pollice, scoraggi milioni di persone a continuare a guardare nella scatola.

Armonia non è un concetto filosofico astruso, è una condizione di vita probabile.
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domenica 13 luglio 2008

GENERAZIONI

Cemto anni fa gli italiani, quelli più poveri, quelli più disperati e ignoranti, quelli che fuggivano in qualche modo da qualche cosa o qualcuno, magari la legge, magari un padre infuriato, magari una situazione senza speranza, quegli italiani, sbarcavano in America.
Nel corso del tempo quel grande paese è stato invaso da ogni razza e ogni tipo d'uomo (essere umano, quando dico uomo non intendo assolutamente dimenticare le donne, che in tutto questo hanno avuto il loro grande ruolo di perpetuare la specie) e ogni etnia ha preteso di imporre le sue ragioni, le sue religioni e il suo valore morale. Chi aveva più ricchezza e armi lo ha potuto fare a discapito di tutti gli altri, autoctoni compresi.
E così, dal 1500 al 1800, gli spagnoli, gli ingesi, gli olandesi e i tedeschi hanno colonozzitato quella grande terra.
Poi, alla fine del 1800, è cominciata l'esponenziale invasione degli italiani.
Questi si sono trovati di fronte un paese che offriva possibilità di ricchezza per tutti. Bastava rimboccarsi le maniche ed essere amico di qualcuno. Grandi sacrifici perchè almeno uno dei figli potesse studiare e grandi speranze perchè almeno una delle figlie sposasse qualche ricco americano.
Un po' come i rumeni, oggi, qui da noi.
Insomma, senza voler fare analisi che non mi competono, gli italiani, cento e passa anni fa, hanno invaso l'America. Esportando in quella terra tutta la forza e l'ingegno e la speranza che in Italia, gli italiani stessi, non riuscivano a radicare.In fondo la storia di molti popoli è simile, anche se vissuta in epoche diverse. Anche la nostra penisola e il popolo che l'abitava da sempre, quel popolo dalle nobili radici latine, sono stati invasi e violentati da ogni sorta di altra etnia, religione e cultura. Perdendo la memoria genetica di quella gloriosa razza.
Ma torniamo di nuovo con la mente in quell'America, dove una società certamente meno evoluta di quella odierna, ma altrettanto certamente più caparbia, accolse in sè tutta quella manod'opera a basso costo, che contribuì a costruire le città, le ferrovie e a rinforzare l'economia delle industrie americane e immaginiamo un dna ibrido che incontra un altro dna ibrido.
Da allora ad oggi, generazione dopo generazione, tutte quelle razze si sono unite per creare un terzo dna che ha portato alla luce centinaia di personaggi che hanno fatto la storia della cultura americana e che portano, immancabilmente, un cognome italiano.

Ora mi trovo di fronte ad un bivio, un ragionamento raddoppiato come un Giano Bifronte: tra 100 anni il dna italiano fuso con i dna dei popoli che lentamente ci stanno invadendo, porterà ad una generazione di grandi scenziati italiani con cognome italiano o ad una generazione di scenziati con un altro cognome?
La risposta sembra essere nel genoma latinorum.
Eppure il mio dubbio nasce da un postulato: quanti figli autoctoni nascono ogni anno a confronto con i figli dell'invasore?
Questa è una domanda che, posta oggi da italiano agli italiani, è valida anche se ci proiettassimo indietro nel tempo e ci raffigurassimo vestiti con un soprabito lungo, al central park, bombetta in testa mentre leggiamo il New York Times del 1910, sentendoci in tasca il rassicurante peso di un passaporto americano, sapendo di chiamarci Smith di cognome.

Intanto che cerco la risposta, raggiungo mia moglie in camera da letto.

domenica 6 luglio 2008

PACCHE E BACETTI

Tornando a casa ieri sera, verso le undici, sull’autobus strapieno di ragazzi che andavano a fare festa da qualche parte, mi è balenato un pensiero.
Ma quand’è che abbiamo cominciato a baciarci invece di stringerci la mano?
Ormai tutti ci si saluta solo con abbracci e bacetti, pacche e abbracci o vigorose strette di polsi ma solo con l’intento di attirare l’altro a sé per poterlo baciare. Insomma, una volta gli uomini si salutavano con vigorose strette di mano si guardavano negli occhi, gli amici si salutavano più confidenzialmente con una manata sulla spalla e un ‘a frocio… ‘i mortacci tua!, ma soprattutto passava del tempo prima di certe confidenze.

Tu conosci uno, lo stai vedendo per la prima volta ed entrambi, molto garbatamente, si tende la mano per salutare nel presentarsi. Ecco, la seconda volta che vi incontrate siete ormai compagni d’armi e di bevute, vecchi amici che si ritrovano dopo un tempo dilatato dai ricordi, non siete più due uomini che si salutano. L’altro vi guarderà con uno sguardo come a dire ma come, non mi abbracci? E vi tirerà a sé.
Perché se voi provate solo a stringere la mano, l’altro tira.

Io ci tengo alle tradizioni ma non sono un conservatore.
Mi piace conservare le tradizioni, ma sono anche un goliardico scopritore di novità.
Mi dispiace di morire, ma son contento.
Mi piace invece evolvermi anche negli usi e costumi, altrimenti starei ancora col telefono a disco a casa, ma mi piace anche ricordare e tenere in considerazione quel che del passato è bello.
Comunque, dunque, però, tecnologia e nostalgia a parte, tornando all’argomento del mio pensiero, mi chiedo, di nuovo: quand'è stato (quando!?!!!) tra noi, quelli della mia generazione, quand’è che abbiamo cominciato a baciarci ogni volta che ci incontriamo?
Ma, scusate se insisto, quandè che tutti abbiamo cominciato ad AVER BISOGNO di baciarci?
La cosa non mi dà fastidio, m’incuriosisce.
Non ho fatto attenzione al momento, al giorno di quell’anno che qualcosa andava cambiando e non ho memoria del salto. Però, forse, questa cosa la sto notando maggiormente da quando mi ha preso la fissa di leggere i libri di Valerio Massimo Manfredi.
Uno storico. Uno che nel vivere la sua passione e nel ricostruire i fatti del passato, ha scoperto che li sapeva raccontare in modo egregio e appassionante. Romani, Greci, Egiziani, abitanti del mediterraneo in generale vissuti tremila anni fa. Uomini vigorosi che combattevano e che davano all’amicizia e alla fedeltà un valore che noi non conosciamo più molto bene. Uomini da cui discendiamo, dei quali in qualche modo portiamo la memoria storica del carattere e delle imprese nei nostri geni. Ma sembra che sia un po’ out essere orgogliosi del proprio gene, fa un po’ fascista e un po’ nazista.
La razza è considerata materia di destra, il popolo è considerato materia di sinistra.
E infatti, ora che ci penso, chissà perché quelli di sinistra guardano sempre alle radici del pensiero e del popolo e non esaltano mai la persona. Non ho una cultura storica dei movimenti di pensiero che fondarono i partiti, nonché degli uomini che li misero in atto, ma immagino che se uno diceva “il popolo unito” l’altro non poteva dire la stessa cosa. L’individuo è diventato materia di studio.
Quindi, come faccio a dire che sono di sinistra, cioè pronto a lottare per il popolo e i suoi valori e i suoi vantaggi, quando poi sono pronto anche a dire che mi pare giusto valutare una persona in base ai suoi meriti personali? Al suo carattere?
Ma come al solito ho divagato. Che c’entra questo con i baci e gli abbracci?
Nulla, appunto. Ho divagato.

E il divagar m’è dolce, in questo mare di parole
naufrago e predone di mille pensieri e atti,
conscio di esser padre poi oltre che prole,
saggio e prodigo di consigli; noi tutti, ratti
nel soggiogar a noi le altrui meraviglie
per renderle, parimenti, nostre figlie.
Chi vuol esser di parte che lo sia
della ragion non v’è certezza
che, per quanto pura, certamente fantasia
di un sol uomo fu, di pensiero sua brezza.

Quindi non ci si illuda di trovar risposte
lungo l’impervia via che ci conduce all’Averno
ma, pazientando nel cercar, troveremo riposte
nell’animo emozioni che saran nostre in eterno.

Vi saluto.
Un bacio e un abbraccio a tutti.
'i mortacci vostra, aò!